Quando i due uomini si separarono, e uno iniziò il cammino di ritorno verso il fiume, e l’altro verso la selva profonda, sapevano che cercando l’orizzonte avevano trovato qualcosa di più importante: la certezza dell’esistenza dell’altro, dell’altro uguale nella forma, ma differente nelle abitudini, e ciascuno si vide più ricco di quando aveva iniziato il cammino, perché il viaggio aveva dato loro le conoscenze che mai avrebbero avuto i vecchi saggi dell’immobilità.

Luis Sepulveda

sabato 28 luglio 2007


"Non coerceri maximo, contineri minimo divinum est"
Non essere limitato da ciò che è più grande, essere contenuto da ciò che è minimo, questo è divino.
(da un epitaffio sulla tomba di Ignazio Loyla, ripreso in seguito da Holderlin)

mercoledì 18 luglio 2007

Bambini invisibili

Ercolano. Sono stati arrestati dai carabinieri di Portici, due coniugi rom, rumeni domiciliati nel campo nomadi di Ercolano, che ben presto sarà sfollato. I due coniugi Asan Tudorica, e Ioan Alexandrina, entrambi 43enni, costringevano i loro figli minori, un maschietto e una femminuccia, di 14 e 11 anni, a mendicare tra i passanti e negli esercizi pubblici di Portici. I due bambini erano anche costretti a rovistare fra i rifiuti nei cassonetti.
Come se tutto ciò non bastasse il padre, per attirare l’attenzione dei passanti fingeva l’invalidità, facendosi spingere dal bambino su una sedia a rotelle.
Durante l’operazione i carabinieri hanno sequestrato 600 euro ritenuti il guadagno dell’attività e la sedia a rotelle.
I due arrestati si trovano ora a Poggioreale e a Pozzuoli, mentre i minorenni sono stati affidati ai servizi sociali di Portici.
Tutto ciò ci porta a riflettere su quanto sia complicata la questione dei rom. Sfrattarli dal campo di Ercolano, è la soluzione più facile, ma non è detto che sia la più giusta. così facendo ce ne laviamo solo le mani, sperando che qualcun altro se ne occupi. Nel frattempo però che “passiamo la palla” ad altri, quei bambini saranno sempre sfruttati e costretti all’accattonaggio, mentre dovrebbero solo pensare a giocare ed andare a scuola. E allora vogliamo sempre lavarcene le mani?

Autore: RacheleT

venerdì 13 luglio 2007

...SOGNARE...

"E sognare è molto comodo, a patto di non essere obbligati a fare ciò che abbiamo progettato. in tal modo non corriamo rischi, non viviamo frustrazioni, momenti difficili; poi, una volta invecchiati potremo sempre incolpare gli altri, preferibilmente i genitori, o i mariti o i figli, per non averci fatto realizzare ciò che desideravamo" ( Paulo Celho in "Undici Minuti")

Autore del quadro: Michele Sannino

sabato 7 luglio 2007

Hutu e Tutsi: Fratelli o nemici?

Partiamo dal film Hotel Rwanda.
Nell’aprile del 1994 i giornali italiani, ma anche gli stranieri, davano ben scarso rilievo a quello che stava succedendo in Ruanda, piccolo Stato dell’Africa Centrale, che nel giro di neppure tre mesi veniva spazzato da una delle più efferate carneficine della storia umana, consumata nella totale indifferenza della comunità internazionale, che lo aveva abbandonato a se stesso all’indomani dell’assassinio del suo presidente, facendolo precipitare in un incubo. È questo il nodo centrale del film che rievoca un episodio archiviato e dimenticato dalla coscienza collettiva. Una pagina di storia vergognosamente taciuta e rimossa perché ad esserne interessato è stato un piccolo Paese privo di ricchezze e perciò irrilevante per chi detiene le sorti politiche ed economiche mondiali. Riportata alla luce attraverso la vicenda di un uomo che in mezzo al caos e all’inferno nel quale il suo Paese era precipitato, riuscì a non perdere la testa e a mettere in salvo la sua famiglia e più di un migliaio di connazionali.
Il cinema serve anche a questo, a sottrarre all’anonimato persone normali che in situazioni eccezionali si rivelano degli eroi.
E il personaggio di Paul Rusesabagina lo è, combattendo, o meglio, cercando di sanare quella spaccatura del paese, il suo paese, che l’odio aveva provocato.
Il film rende chiaramente l’idea di questa frattura: da un lato la martellante propaganda radiofonica di istigazione all’odio costruita sulla calunnia, sulla delazione, sulla diffidenza nei confronti del vicino di casa, del collega di lavoro, del parente; dall’altro la vita quotidiana di quegli Hutu e Tutsi che invece si frequentavano, lavoravano fianco a fianco, abitavano vicini, erano amici, si innamoravano, si sposavano, facevano figli assieme.
È successo in Africa, ma è successo e succede altrove, secondo un doloroso copione che la storia ha messo troppe volte in scena. Sono sempre gli stessi pretesti ad accendere i conflitti: un diverso credo religioso, la contesa di un confine territoriale, la rivendicazione di una superiorità etnica e razziale attraverso un differente colore della pelle o addirittura dei tratti somatici.

Gli Hutu e i Tutsi sono vissuti sempre in armonia, agricoltori i primi, aristocratici i secondi, agli uni spettava un ruolo di governo, agli altri prerogative rituali.
Quando un giorno, arrivarono i colonizzatori, prima tedeschi e poi belgi, a spezzare questo equilibrio. Questi , infatti, per rafforzare il loro dominio, applicarono il principio del “ divide et impera”. I tedeschi scelsero allora i Tutsi come interlocutori( i loro corpi slanciati e la pelle più chiara li rendeva agli occhi degli Europei, più intelligenti, rispetto agli Hutu dai tratti marcatamente negroidi). Spettavano, così, a loro tutti i privilegi, non solo, ma furono anche incoraggiati a sfruttare gli Hutu. Quest’ultimi furono, invece, privati delle loro funzioni rituali.
Era così nata quella frattura insanabile nella società hutu-tutsi che avrebbe portato al massacro.
Per imporre tutto ciò, i colonizzatori crearono delle carte di identità nelle quali ogni individuo è classificato come Hutu o Tutsi, a seconda del numero di bovini che possedeva, in assenza di basi su cui fondare la distinzione razziale, visto che la distinzione fisica non era sufficiente.
Gli anni passano, i Tedeschi, sconfitti nella prima guerra mondiale, sono costretti a cedere la colonia ai Belgi. Dalla padella alla brace. Le cose non cambiarono per la popolazione del Ruanda, anzi, i nuovi colonizzatori cercarono di mantenere e accentuare quella divisione.
Il fremito di libertà degli anni ’50 invase l’Africa e anche questa terra.
Anche i “servizievoli” Tutsi, invece di rimanere “fedeli” al potere, si organizzano per ottenere l’indipendenza. Vedendosi così traditi, i colonizzatori puntano sugli Hutu, meno organizzati e istruiti, aizzandoli contro i Tutsi.
L’indipendenza arriva nel 1962, la pace è ancora lontana. I massacri continuano, molti Tutsi sono costretti a lasciare il paese.
Nel 1973 con un colpo di stato, il capo dell’esercito Habyarimana prende il potere.
Egli si comporta da vero e proprio dittatore: si circonda di ministri e militari provenienti dalla sua regione e vieta ogni tipo di opposizione, l’unico partito consentito è il Movimento Rivoluzionario Nazionale costituito su basi etniche e sociali.
In questo clima si rafforza la resistenza tutsi, alla quale si aggiungono gruppi hutu insofferenti al regime.
L’azione sempre più forte dei gruppi di opposizione clandestina, la minaccia del Fronte Patriottico Ruandese a maggioranza tutsi che operava nell’Uganda e la costante pressione di alcuni Paesi occidentali, hanno portato Habyarimana a cedere ad un accordo di pace con l’opposizione, che avrebbe dovuto portare alla democratizzazione del Paese.
Il 6 aprile 1994, all’aeroporto di Kigali, un aereo è abbattuto.
È l’aereo che trasporta Habyarimana, il presidente del Burundi, Ntaryanira, ed altri esponenti del governo.
Non si sa chi sia stato il mandante. Probabilmente furono gli stessi alleati di Habyarimana a volerlo morto. Erano in gioco troppi privilegi, meglio un conflitto con massacri e pulizia etnica.
Non erano gli unici interessi: il Ruanda faceva comodo al Belgio e alla Francia. Posizione strategica fra l’Africa francese e quella inglese, e inoltre confina con lo Zaire, il cui sottosuolo faceva gola a molti “grandi” della terra.
Alla morte del presidente, l’esercito del vecchio partito unico inizia l’eliminazione fisica dell’opposizione hutu e dell’inera popolazione tutsi. Sono massacrate circa un milione di persone, ed altre ancora costrette ad abbandonare la propria terra.
Tutto ciò ha avuto luogo nella più totale indifferenza del resto del mondo.
È significativo che Jack, il reporter inglese del film Hotel Rwanda, di fronte alle immagini del massacro commenti: " Esse sono destinate ad essere consumate durante l’ora di cena da milioni di telespettatori distratti ed anestetizzati, che magari neppure sanno dov’è il Ruanda ".
Anche Paul Rusesabagine in una dichiarazione riportata dal “Corriere della Sera” nel marzo 2005, afferma: " Tutto il mondo allora ci ha abbandonati colpevolmente, forse perché in Ruanda non c’è petrolio. La comunità internazionale non ha ascoltato i nostri appelli: duemila soldati americani dopo poco mollarono la presa lasciando la gente indifferente ad un eccidio furibondo, il più veloce dell’era moderna, che i media quasi non fecero in tempo a registrare, e che in 100 giorni uccise un milione di persone"
Penso che queste parole si commentino da sole, vorrei solo ricordare che l’ONU in un rapporto, ha volutamente evitato di definire questa strage “genocidio”, perché ciò avrebbe dovuto significare, come dire, una maggiore presenza di quei “forti” in Ruanda.
Vorrei concludere questo discorso con altre parole di Rusesebagina, pronunciate durante una conferenza stampa in occasione dell’uscita del film:"Attualmente in Ruanda ci sono al potere dei vincitori che hanno preso il posto degli sconfitti: non è la vera pace, è intimidazione degli uni sugli altri. La riconciliazione ci sarà solo se ci sediamo tutti attorno ad un tavolo negoziale per parlare francamente di quanto è successo".

Autore: RacheleT.

martedì 3 luglio 2007

Il falso Doriforo

Il prof. Franciosi, un archeologo di appena 41 anni, rappresenta l’ardire dello studio, la passione per la cultura e, possiamo dirlo, l’orgoglio di Ercolano.
Il professore ha completamente capovolto un’ opinione che resisteva dal 1863!
Ecco ciò che spiega nel suo libro: dunque, si sa che dal 212 a.C., data della presa di Siracusa, e ancor di più dalla distruzione di Corinto e dall’acquisizione della Grecia in provincia romana, si registra un grande afflusso di opere greche a Roma. I ricchi signori romani decoravano le proprie residenze con statue fatte arrivare dalla Grecia, chi non poteva permettersele, richiedeva delle copie. Ecco allora, che nel II sec. a.C. sorgono ad Atene botteghe di copisti in marmo. Le copie delle statue non erano sempre fedeli, a volte ingrandivano, altre volte rimpicciolivano l’originale, oppure addirittura aggiungevano alle copie delle varianti inesistenti nell’originale.
Tutto sommato, però, le copie sono importanti per ricostruire lo stile dell’opera originale, (soprattutto se si pensa che le statue originali in bronzo furono fuse per coniare monete o per foggiare armi durante le crociate).
Nel XVIII sec d.C. Winkelmann cominciò ad applicare il metodo filologico all’archeologia, a studiare, cioè, oltre alle opere originali, anche descrizioni, fonti scritte.
Questo metodo portò Karl Friederichs, nel 1863, a riconoscere nella statua nella foto una copia dell’originale in bronzo del Doriforo di Policleto, proveniente da Ercolano, in realtà poi si è scoperto, provenire da Pompei. Questa statua è stata per tutti un Doriforo di Policleto, fino agli studi del nostro prof. Franciosi: "Fin da quando ero all’università, più guardavo questa statua, più mi convincevo che c’era qualcosa che non andava ". Infatti tutti pensano che la statua regga nella mano sinistra una lancia, quindi è mancina, la lancia stona con la figura, contrasta la razionalità dell’opera, inoltre sembra assurdo che Policleto avesse realizzato una statua con una lancia che sporgesse ad altezza uomo.
Se osserviamo bene lo schema generale della statua è molto simile a quello dei bronzi di Riace ( ad esempio il chiasmo tra la tensione e distensione di braccia e gambe ). I bronzi di Riace, però, avevano uno scudo. Il professore ha osservato la mano sinistra del Doriforo ( o almeno della statua comunemente ritenuta tale ): l’indice e il mignolo sono avanzati, questo significa che la mano stava mantenendo qualcosa di arcuato, inoltre sul braccio sinistro della copia di Napoli sono stati ritrovati segni di ossidazione, che corrisponderebbero al bracciale dello scudo. Se si osserva bene il braccio destro, si scopre che questo non è poi così rilassato. A ben guardare anche la posizione della mano, si nota che questa è chiusa in modo da formare uno spazio quadrangolare, dove può solo entrarci una spada! Quindi questa statua ha una spada e uno scudo e non può coincidere con un Doriforo, che proprio per il nome è una statua che porta la lancia. Il professore Franciosi ha dimostrato, distruggendo una credenza che durava nei secoli, attraverso altri studi che il falso Doriforo di Napoli è in realtà un Teseo, probabilmente di Policleto.
Ma, allora, quale è il vero Doriforo? Plinio nelle Naturalis Historia scrive che il Doriforo è “virilmente fanciullo”, e secondo il professore coincide con l’ Efebo romano che si trova al British Museum di Londra. Il prof. Franciosi ha quindi distrutto due credenze: il Doriforo di Napoli è in realtà un Teseo di Policleto e l’Eufebo di Londra è il Doriforo di Policleto!

Autore: Rachele T.